Per una storia dell’etica economica mercantile: la scelta di vita pauperista

san Francesco
Paolo Evangelisti
Data di pubblicazione

I movimenti pauperistici del XII-XIII secolo costituiscono, in una precisa area geografica occidentale europea, uno dei fenomeni salienti della storia sociale e religiosa dell'epoca. Il loro grande successo nella società, fra i non chierici, ha da tempo imposto alla riflessione storica la necessità di studiarne le origini e le ragioni. Esiste una notevole tradizione di studi legata alla storia della Chiesa, ma più di recente si cercato di precisare i contenuti economico-sociali che caratterizzano la scelta pauperistica, in particolare del movimento - Ordine francescano [1] per la sua specifica vicenda e resistenza dopo che, invece, in diversa maniera catari, valdesi e umiliati vennero riassorbiti o sterminati con il contributo determinante della Chiesa.

Ma la lettura "popolare" del fenomeno pauperista ha per molto tempo posto in secondo piano una questione fondamentale: quali erano le fonti teorico-linguistiche del pensiero pauperista rivolto all'intera società, ma non per questo derivante dal basso? Non va dimenticata, infatti, la matrice socioculturale dei fondatori e delle leaderships di quei movimenti che elaborarono una concezione di vita cristiana per i "laici" individuando nella povertà volontaria la scelta caratterizzante della propria identità di cristiani. E' dunque singolare che, proprio in un periodo di forte ripresa economica monetaria e mercantile, si sviluppi e diffonda questa concezione di vita cristiana proposta alla società nel suo complesso come scelta quotidiana concreta.

Il punto cruciale da cui partire è quindi l'identificazione del buon cristiano con il povero volontario. Questo assioma, che fa breccia sin nelle più alte gerarchie ecclesiastiche, implica la progressiva definizione della povertà e quindi della ricchezza. Proprio intorno a questa necessità teorica e teologica si verifica la crescita del pensiero francescano due-trecentesco, con conseguenze che travalicano da subito le interne dinamiche dell'Ordine e la dialettica Ordine - Curia Romana. Qualificare la povertà significa, infatti, definirne il grado, rielaborare e fondare nuove categorie giuridiche intorno alla proprietà, distinguerla dal possesso, definire l'uso dei beni - basti ricordare l'usus pauper attorno a cui ruoterà lo scontro e l'identificazione del francescanesimo rispetto al resto del mondo ecclesiastico. Non va dimenticato, anche, che la povertà involontaria è una condizione che non qualifica di per s‚ in positivo il Cristiano. Francesco stesso, campione dell'umiltà e della volontà di condividere la vita con gli ultimi della società, è l'emblema massimo della povertà volontaria.

Il movimento francescano si pone così, già nel corso del primo duecento, problemi di analisi economica, di necessità di comprensione del mondo in tutti i suoi epifenomeni umani e fisico-naturali, che lo spingono a pensare e a ridefinire l'intero orizzonte concettuale del pensiero medievale giungendo a elaborare una prima istanza epistemologica, che è una delle novità teoriche più alte del contributo francescano. E, d'altro canto, non può essere taciuta la grande rilevanza economica della Natura: non più estranea all'uomo, sacra ed inviolabile, ma, da Francesco in poi, bene e oggetto sul quale riflettere in termini di interrelazioni economiche in senso ampio. Tutto ciò che offre la terra diviene così, grazie soprattutto al pensiero francescano, soggetto ed oggetto economico che va analizzato per essere adoperato correttamente. E' evidente il contenuto e la forza di estrema "modernità" di tale pensiero. Se dal punto di vista religioso si impone la necessità di vivere concretamente in modo cristiano secondo la lettera del Vangelo - si pensi al Testamento di Francesco, a Valdo -, su un piano più latamente sociale questo implica ridefinire la posizione dell'uomo rispetto al mondo, alle sue strutture economiche e politiche.

Un approccio stimolante per studiare questi problemi è quello di seguire il recupero e la trasformazione del lessico teologico-morale ed economico del messaggio pauperista rintracciandone le fonti linguistico-concettuali fin dalla Tarda Antichità attraverso l'identificazione del vocabolario della povertà. Primo risultato eclatante è la constatazione che le istanze medievali attingono direttamente a tesi patristiche di molti secoli precedenti mediate dalle fonti giuridico-ecclesiastiche: dal Corpus Dyonisianum al Decretum Gratiani (V e XII secolo rispettivamente). Ecco quindi che la popolarità, l'umiltà del pensiero pauperista mostra in realtà la sua provenienza elitaria e la capacità di modificarsi rispetto ai tempi e a interlocutori in parte diversi. Si pensi al Sacrum Commercium cum Domina Pauperitade[2], un testo francescano considerato popolare che dice a proposito della scelta della povertà volontaria: "... vera regni coelorum investitio est et aeternae possessionis in eodem regno securitas[traducibile con sicurezza ma soprattutto con il termine assicurazione] ac futurae beatitudinis quedam praelibatio sancta".

Ora i vocaboli evidenziati sono l'esatta terminologia impiegata da Agostino o da Basilio di Cesarea nelle loro omelie per spiegare i vantaggi terreni e futuri dell'elemosina e della largizione del superfluo sulla scorta di passi evangelici (Lc. 12, 31-34): "Vendete ciò che possedete dandolo in elemosina", investendo piuttosto in ciò che non deperisce, un tesoro in cielo ("thesaurum non deficientem in coelis", tradotto nel Sacrum commercium con securitas) che n‚ il ladro n‚ la tigna sono in grado di attaccare. Limitandosi, quindi, ad una chiave di storia della lingua e del lessico è già evidente l'interrelazione tra testi alti e testi solo strutturalmente popolari e narrativi, ma dall'ideologia fortemente elitaria che riesce a funzionare calata ai livelli popolari della società cittadina tardomedievale.

Quindi la novità e l'originalità del pensiero francescano vanno opportunamente ritarate alla luce delle mediazioni utilizzate, pur constatandone la forte efficacia pastorale, fondante un'etica economica cristiana che opererà ben oltre il medioevo. In proposito sarà sufficiente ricordare il formarsi della categoria dell' utilitas sul piano soteriologico, ma fortemente connessa a quella di moralità economica. Chi non ricorda il "conto di Messer Domineddio", immancabile nei testamenti dei mercanti italiani e francesi dell'epoca, con il quale una parte delle risorse guadagnate vengono destinate ad istituzioni caritative?[3] Presto trasformatesi in veri e propri enti economici e creditizi, tanto da far sorgere una vera e propria economia di carità, di cui il monte di pietà è uno degli esiti più vistosi.

Si salda così, nel cuore e nella mente del buon cristiano, la possibilità della salvezza e quella dell'agire economico-finanziario, autentico nerbo della dinamica sociale tardomedievale occidentale. Basterà mettere a confronto un sermone di Agostino e due testi agiografico-"popolari" francescani. Il Vescovo di Ippona sostiene: "... si decimam non dederis non solum abundantiam fructum recipies, sed etiam sanitatem corporis...". Nella Legenda Maior "a pauperibus Christi diffidentia omnis abscedat. Si enim paupertas Francisci adeo copiosae sufficientiae fuit, magis divinae providentiae ordine communiter conceduntur ...", o ancora "... factum est, ut inopiam, quam pecunia relevare non poterat, Francisci pauperies opulenta suppleret". Sempre Bonaventura, nella Legenda Minor, spiega esplicitamente che la scelta di povertà volontaria condivide la stessa logica dell'investimento mercantile, garantendo però, come già per Agostino ad esempio, una ricchezza più duratura in cielo ma non l'inedia in terra (vedi sopra il passo della sua Legenda Maior: avendo abbandonato (Francesco) ogni avere della sua casa, ... si rendeva conto di aver trovato un tesoro nascosto e "sua disponebat cuncta distrahere divoque mercandi modo negotiationem mundanam in evangelicam commutare". Ma constatare questa saldatura non deve farci dimenticare il debito patristico più antico delle tesi pauperistiche. Clemente Alessandrino, Giovanni Crisostomo, i Padri Cappadoci e, per la tradizione occidentale, i fondamentali apporti di Ambrogio e di Salviano di Marsiglia sono i nomi di spicco di un pensiero economico che si dispiega tra II e V-VI secolo, ponendo le basi teoriche e teologico-morali all'ideologia della salvezza pauperista tardomedievale. Salviano di Marsiglia, nel suo Contra avaritiam [4], pone con chiarezza la saldatura tra buon uso dell'eredità e salvezza del testatore legata all'utilità per la Chiesa locale che la riceve. E' vantaggioso, sostiene, lasciare i propri beni agli ecclesiastici perché si ha la certezza che essi saranno bene amministrati e dispensati; è quindi come se "si nominasse eredi se stessi", quindi una forma di pio egoismo, assolutamente legittimo per Salviano, che trova nella categoria dell'utilitas il criterio di spiegazione e di convinzione pastorale. Vediamo così, in un contesto economico fortemente diverso, come funzionino determinate categorie teologico-soteriologiche notevolmente sviluppate tra '2 e '400. Uno stretto collegamento tra pensiero cristiano tardoantico-altomedievale e pensiero pauperista esiste proprio nella definizione di povertà. Già nei primi secoli la lettura dei passi che qualificano cristiano e povero nel Nuovo Testamento si definisce nella qualificazione pauper Christi = povero volontario = dives prima e clericus poi, mentre il povero involontario non ha meriti, non avendo scelto la sua condizione, comunque assolutamente non sufficiente a garantirgli la salvezza. Solo il dives che si fa povero, che non significa mai aderire ad una condizione di povertà totale, acquisisce meriti nell'aldiquà e nell'aldilà in virtù di un comportamento di cristomimesi. Come Cristo si è fatto povero incarnandosi, "cedendo" cioè la veste divina per quella umana, così il dives che cede una quota parte di ricchezza, comportandosi come Cristo, si garantisce la salvezza attraverso l'investimento dell'elemosina (definito dai padri lucrum spirituale).

Quest'ultima sempre più spesso passa attraverso la mediazione del buon amministratore che è, già nel IV secolo, il vescovo.

Salviano sostiene in proposito che proprio il prelato, che non ha proprietà dei beni che gestisce, garantisce un'alta capacità amministrativa. Anche qui, dunque, riscontriamo una riflessione ripresa poi dal pensiero francescano che privilegerà l'uso sul possesso e sulla proprietà. Valutazioni che, se non possiamo far derivare direttamente da Salviano, ritroviamo però nel Decretum Gratiani [DG, I parte, LXXXVIII, 11]. Ecco, quindi, come la capacità di leggere fonti considerate tradizionalmente non economiche per la storia della società ci consente di verificare, sul lungo periodo, la stretta relazione tra scelta religiosa e vita quotidiana, dandoci ancora una volta il destro per mostrare come comportamenti e istanze apparentemente ascetiche o pauperistico-radicali non siano in realtà tali. E ciò è vero non solo per i Minori Osservanti o Spirituali (basti ricordare la traduzione della scelta di povertà come non proprietà dei beni - che in Francesco è rifiuto del denaro e invece etica del lavoro "manibus suis"-) ma anche per i Padri della Chiesa, come Basilio di Cesarea, tradizionalmente collegati al monachesimo cenobitico[5]. Questi passaggi comuni al pensiero patristico sono sufficienti a mostrare come il francescanesimo attinga e rielabori queste tesi, e allora l'originalità e la novità dell'OFM va correttamente riconsiderata.

Pur non attribuendo particolare dignità storiografica alle categorie di "originale" e "nuovo" , ci sembra utile servircene per sottolineare, appunto, che esse si relativizzavano fortemente rispetto al pacchetto di fonti che si mettono in relazione, alla utilità non solo di muoversi su periodi cronologici brevi e lunghi, ma soprattutto di non procedere per fonti separate o addirittura a partire dalla loro qualificazione di alte o basse in virtù dello stilema narrativo adottato. Quest'ultimo caso è quello che ha portato per molti anni ad escludere una buona parte delle fonti francescane agiografico-divulgative (i Fioretti, il materiale che ne costituisce le basi, le Vite di San Francesco, ad esempio) dallo studio del pensiero teorico dell'Ordine, e quindi alla relazione con istanze e concetti patristici e teologici "alti". Si impone allora la necessità di proseguire gli studi in questa chiave interdisciplinare che si mostra sempre più produttiva e che consente di operare una profonda revisione del luogo comune storiografico legato alle tesi di Max Weber in L'etica protestante e lo spirito del capitalismo". Ma anche la storia del primo francescanesimo ne esce precisata e opportunamente demitizzata sia per quanto riguarda le modalità di vita dei Minori, il tipo di povertà adottato, sia per la revisione dell'interpretazione bassa e popolare del loro agire e pensare teologico-pastorale tutto incentrato su un'erronea equazione: stilema narrativo = livello intellettuale della fonte e dell'autore.

Note Bibliografiche

1. G. Todeschini, Oeconomica Franciscana. Proposte per una lettura delle fonti dell'etica economica medievale. Rivista di storia e letteratura religiosa, XII, 1976

2. Firenze, Quaracchi, 1926.

3. Si vedano: M. Mollat, I poveri nel Medioevo, Bari, Laterza, 1987 e, per l'età moderna, A. Tenenti, Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento, Torino, Einaudi, 1982; per la Spagna tra '5 e '600: R. Bellarmini, De arte bene moriendi libri duo, Coloniae Agrippinae, 1634, con implicazioni enormi sull'evoluzione di quell' ars moriendi che costituisce una dimensione fondamentale della mentalità e della spiritualità dei primi uomini "moderni".

4. Edito nelle Sources Chrìtiennes e in traduzione italiana nella collana di testi patristici delle edizioni Città Nuova.

5. In proposito potremmo ricordare Agostino (Sermones, 61, 112) che ribadisce come l'autoprivazione del ricco, di chi ha, riguarda il superfluo (superabundantia), ciò che, rispetto agli standard del proprio ceto di appartenenza supera il sufficiente per vivere.

L'Unicorno, anno III n. 3-4, 1992, pp.17-20