Mostra "Lame in Battaglia" - (2021) - Approfondimenti

Lame in Battaglia
Ciro De Simone
Data di pubblicazione

ROMA: Dal Gladio alla Spatha

La prime spade in uso a Roma erano forse di derivazione greca, Xiphos . Si trattava di un’arma lunga anche 60 cm atta a colpire essenzialmente di punta, pur essendo affilata su entrambi i lati.

Il termine “gladio” si ritrova nella cultura latina già tra il III e II secolo a.C., accanto al termine “ensis”. L’introduzione del gladio, nella tradizione militare romana, viene fatta risalire, dalla leggenda, a Scipione l’Africano, che, conquistata Cartago Nova (209 a.C .), nota, fin dall’epoca celtica, per la produzione di ottime spade, avrebbe preteso, in cambio della salvezza della città, la produzione di oltre 100.000 nuove spade.

Il racconto non è tuttavia accettato unanimemente; si fa notare infatti come, ad esempio, di “gladio ispanico” parlano sia Claudio Quadrigario che Tito Livio , che, pur vivendo nel I secolo a.C., narrano dell’episodio nel quale Tito Manlio, durante la battaglia sul fiume Anio (361 a.C.), utilizza un gladio ispanico, nel corso del duello contro un barbaro celta: ”Scudo pedestri et gladio hispanico cinctus contra Gallum constitit” (Claudio Quadrigario: Annales I). Tito Livio descrive l’arma come adatta al combattimento corpo a corpo. In ogni caso il gladio ispanico divenne parte dell’armamento di ordinanza del fante romano, che lo portava sul fianco destro, estraendolo con una torsione del polso della mano destra.

Già nella sua prima versione, quella c.d. ispaniense, era un’arma molto versatile, in grado di colpire sia di punta che di taglio. Secondo quanto riporta Polibio, “Ha una punta eccellente e un forte tagliente su entrambi i lati poiché la sua lama è solida e affidabile”. L’arma era adatta ad un utilizzo in formazione, con utilizzo prevalente degli affondi con la punta (Vegezio: Epitoma Rei militari L.1 XII: un colpo di punta che penetra per due pollici è mortale). Il fatto che i colpi venissero inferti anche di taglio sembrerebbe però testimoniato da uno scritto di Tito Livio (Ab Urbe condita libri .XXXI) , riguardante la seconda guerra macedonica: “Quando [i Macedoni] videro i corpi smembrati con la spada ispanica, le braccia staccate dalle spalle, le teste mozzate dal tronco, le viscere esposte ed altre orribili ferite [...] un tremito di orrore corse tra i ranghi”. In base ai ritrovamenti effettuati gli studiosi hanno individuato tre modelli del gladio, frutto di evoluzioni successive:

versione ispanica, importato a cavallo della seconda guerra punica e utilizzato sino al I secolo d.C.; sua caratteristica è la lama con una conformazione a foglia: si allarga verso la punta, aumentandone il peso e la potenza del colpo fendente; la punta è pronunciata. Lunghezza della lama intorno ai 60-66 cm.

versione Magonza, il maggior numero di reperti proviene dalla zona Renana della Germania (dal I sec.). In uso nella parte più impegnativa dell’Impero. La lama si allarga ancora, a formare un triangolo, lama rastremata al centro e punta sempre marcata (fino ai 20 cm di lunghezza). Lunghezza della lama intorno ai 50-55 cm.

versione Pompei: (ne fu trovato un gran numero in questa città). Si afferma dalla seconda metà del I secolo, specie in Italia e al centro dell’Impero. La lama è dritta e la lunghezza è intorno ai 50 cm. Sia la versione Magonza che la versione Pompei si distinguono per la presenza di una guardia a coppa rovesciata in legno, come il manico; all’estremità un pomolo in legno o materiale pregiato a controbilanciare l’arma.

Fra la fine del II e l’inizio del III secolo, sia per la presenza sempre più numerosa di germani fra le fila dell’esercito, e per il variare delle esigenze belliche, legate allo schieramento prevalente dell’esercito presso i confini orientali dell’Impero, inizia ad essere utilizzata un’arma di dimensioni maggiori (ma dal peso contenuto, circa 1 kg), la spatha, già utilizzata dalle truppe a cavallo; l’arma veniva portata sul fianco sinistro; la lunghezza, infatti, varia dai 65 ai 90 cm; fra gli esemplari ritrovati, il meglio conservato sembra essere quello di Colonia, del IV secolo, con una lama di 72 cm per 5.2 cm e un’impugnatura in avorio ancora integra; in molti casi la datazione delle spade ritrovate è stata agevolata dal contemporaneo ritrovamento, accanto alle stesse, di monete; in diversi casi si nota un tipo di lavorazione, detto “patter-welding”, che prevede lavorazione separata e successivo assemblaggio dei pezzi con metodi e materiali diversi.

I LONGOBARDI

Nel 568 d.C., solo pochi anni dopo la fine delle guerre con le quali l’esercito bizantino comandato dal generale Narsete, aveva riconquistato l’Italia, strappandola ai Goti, i Longobardi entrarono in forze nella penisola; secondo lo storico Paolo Diacono, vissuto nel VII secolo, il loro ingresso fu in qualche modo agevolato dallo stesso generale Narsete, ormai in aperto dissidio con l’Imperatore Giustino II e la consorte Sofia (la tesi è oggi ampiamente contestata).

I Longobardi erano una popolazione originaria forse della Scandinavia, che si era insediata per un certo tempo in Pannonia; il loro arrivo trovò una penisola provata da decenni di guerre e pestilenze, ormai incapace di opporre resistenza ai nuovi invasori, che vi si insediarono a macchia di leopardo, rompendone, per la prima volta, l’unità politica, che si trovò ormai divisa fra il controllo bizantino, soprattutto al sud, e quello longobardo, sviluppato principalmente nel nord, dove insediarono la loro capitale a Pavia.

In mostra sono state esposte una riproduzione dello Scramasax e una di Spada lunga

Lo scramasax era un'arma corta a un solo taglio, caratteristico dei popoli germanici. Veniva portato in un fodero fissato orizzontalmente alla cintura, e pare che venisse usato generalmente come attrezzo, anche se, in caso di necessità poteva fungere da arma. Poiché in alcuni dialetti inglesi esistono vocaboli come scram o scran per designare il cibo e seax per indicare una lama, si può supporre che scramasax significasse "coltello per il cibo". La misura della lama varia, e si passa così dai 20-30 cm (Kurtsax) ai 70-80 cm del secolo VII inoltrato/inizi dell'VIII secolo (Langsax).

La riproduzione della spada esposta risale al VII secolo d.C.; si tratta di un’arma a due tagli, lunga 94 cm, e dal peso di circa 1190 gr., con punta smussata, adatta a colpire più di taglio che di punta; è più lunga del gladio romano, con una punta non molto pronunciata. Nell’originale la lama presentava un tipo di forgiatura, detta ‘pattern welding’, che la rendeva più flessibile e resistente, attraverso la lavorazione separata e successivo assemblaggio dei pezzi con metodi e materiali diversi. La parte centrale prevedeva la sovrapposizione di strati alternati di ferro e acciaio, ribattuti insieme e ripiegati in modo da creare, specie nelle armi di personaggi importanti, una decorazione di superficie detta damaschinatura. I due tagli, lavorati separatamente, erano aggiunti alla parte centrale attraverso saldatura a martellatura. L’impugnatura presentava una ricca decorazione, forse in ottone fuso e legno, in certi esemplari tale decorazione poteva essere in oro. In alcuni ritrovamenti gli stessi foderi presentavano lavorazioni in filigrana dorata all’interno della quale venivano incastonate pietre vitree.

I VICHINGHI

Il periodo vichingo rappresenta forse l’anello di congiunzione fra le spade di epoca romano barbarica e le successive spade medievali.

Uno degli aspetti distintivi consiste nell’elsa, caratterizzata dall’aspetto a croce e dal tipico pomolo, spesso a cappello polilobato, che rappresenta una variazione rispetto alla spatha di epoca romano barbarica. Gli studiosi tendono però a considerare le spade vichinghe come una sottoclasse delle spade dei Franchi; lo stesso pomolo polilobato appare più come una invenzione di matrice franca, come sembrerebbe testimoniare l’iconografia del tempo (Salterio di Utrecht). Durante il periodo franco si afferma poi la tendenza a decorare il forte delle lame con incisioni.

I Vichinghi, del resto, non erano grandi produttori di spade, e pochi di loro potevano permettersene il lusso; quelle esistenti passavano fra le generazioni e acquistavano grande valore. Le armi più diffuse erano lancia e scure, mentre da alcuni documenti si rileva quanto dispendioso fosse dotarsi di una spada (In alcune saghe islandesi si stima il costo di una spada nel valore di mezza corona, ossia 16 mucche da latte).

A livello strutturale, le spade diventano più lunghe, costruite, all’inizio, con più strati di acciaio, con diversi livelli di carbonio, forgiati insieme, con l’aggiunta di un lato indurito, e successivamente con lame di acciaio omogeneo, importate dalla zona del Reno. Le lame erano lunghe fino ad 80 cm, con sgusci che potevano coprire l’intera lunghezza della lama, per alleggerirla e conferire velocità e flessibilità. Alcune di loro, recuperate soprattutto nel Nord Europa, recano iscrizioni, quali, ad esempio “Ulfberth”. Questa iscrizione caratterizza una serie di spade, la più antica risalente all’850 circa, il cui acciaio risulta particolarmente resistente, in quanto ricco di carbonio e povero di scorie. La loro fabbricazione è considerata ancora oggi un enigma, in quanto un tale livello di purezza è possibile solo alzando notevolmente la temperatura di fusione (fino a 1529° C), cosa non raggiungibile all’epoca.

IL BASSO MEDIOEVO

Uno degli elementi caratterizzanti nelle spade fra l’XI e il XII secolo è l’aumentare delle dimensioni dell’elsa, a protezione della guardia del guerriero. Le lame hanno una lama di solito un po’ meno larga, rispetto alle precedenti vichinghe, a due fili e con la presenza di uno sguscio centrale di lunghezza variabile, avente lo scopo di alleggerire l’arma conferendo al tempo stesso elasticità. L’impugnatura va dai 9 fino a oltre 20 cm, a seconda che il brandeggio sia ad una o a due mani, con una lama la cui lunghezza è variabile fra i 70 e i 90 cm; col tempo i progressi delle corazzature difensive dei combattenti sul campo comporteranno modifiche anche per la punta, che diventerà via via più pronunciata; interessante per una classificazione il contributo fornito da Ewart Oakeshott, negli anni ’60 dello scorso secolo; le spade medievali vengono da lui raggruppate in tredici tipologie contraddistinte da lunghezza della lama, profondità e lunghezza dello sguscio centrale, forma e dimensione dell’elsa, del codolo e del pomolo.

E’ evidente, nel Medioevo, il legame fra l’arma e la simbologia cristiana, che va di pari passo con l’accrescersi della rilevanza sociale del cavaliere, necessario al mantenimento della struttura feudale. La stessa cerimonia dell’Addobbo del cavaliere si ammanta di forte simbologia e la spada rappresenta il simbolo della Croce di Cristo (Raimondo Lullo - Libro dell’Ordine della Cavalleria – 1275-1276); all’inizio, anzi, è proprio la spada ad essere benedetta durante la cerimonia, che, col tempo, diviene un vero rito sacro.

Spada di San Galgano, Abbazia di Montesiepi, SI – Comune di Chiusdino

Galgano Guidotti è vissuto fra il 1148 e il 1181, come attestano i documenti esistenti; la sua beatificazione risale al 1181. Si narra che, all’apice di una vita dissoluta, Galgano compì un gesto di conversione potente, conficcando la spada nella roccia. Dagli atti della beatificazione si legge la testimonianza della madre, Dionigia, la quale narra, che durante il periodo in cui il figlio si recò in visita dal Papa Alessandro III, degli sconosciuti tentarono di estrarre la spada, causandone la rottura. Al suo ritorno Galgano compì il primo miracolo e la spada ritornò integra. La leggenda narra che le ossa ancora visibili in una piccola cappella vicino alla Rotonda, siano le braccia e le mani di uno degli uomini che tentarono di estrarre la spada dalla roccia.

E il mito della spada di Re Artù?

Questo mito, insieme a quello del c.d. ciclo bretone, fu introdotto da Chrétien de Troyes in Francia, intorno al 1190, dunque ben dopo la morte di Galgano e dopo la sua beatificazione, con il riconoscimento del miracolo della spada. Alcune coincidenze peraltro sono curiose, come la presenza fra i cavalieri di Artù di Galvano, il cui nome ricorda quello del Santo; Chiusdino poi si trova sulla via Francigena, che congiunge la valle del Merse, dove sorge Chiusdino, con la Francia meridionale, dove viveva il Chrétien de Troyes.

Spada di San Maurizio

Custodita presso l’Armeria reale a Torino, la spada risale alla prima metà del XII secolo, ed è considerata, da secoli, una delle più importanti reliquie di Casa Savoia; fu trasferita nel 1591 a Torino, da Agauno, in Svizzera, luogo nel quale, secondo la tradizione, risalente al racconto del Vescovo Eucherio (V Sec.), alla fine del III secolo avvenne il martirio di Maurizio, generale romano della legione Tebana, composta da soldati convertiti al cristianesimo che, dopo una vittoriosa campagna, si erano rifiutati di obbedire agli ordini dell’Imperatore Massimiano di perseguitare alcune popolazioni cristiane che abitavano nei territori attualmente compresi nel cantone Vallese.

In epoca medievale San Maurizio divenne Santo Patrono del Sacro Romano Impero, al punto che l’Imperatore Enrico I di Sassonia, cedette il territorio dell’Argovia, oggi cantone Svizzero, in cambio della lancia del Santo, entrata poi a far parte del tesoro del Sacro Romano Impero. Secondo la classificazione indicata da Ewart Oakeshott la spada potrebbe essere inserita nel c.d. Tipo X, in uso fino a tutto il XII-XIII secolo, caratterizzato da spade robuste, abbastanza pesanti. La spada era pensata per essere usata prevalentemente di taglio, visto che le corazzature dei soldati erano ancora relativamente leggere, prevedendo al massimo una cotta di maglia. La guardia ha sezione generalmente quadrata, sottile e allungata, e tende ad assottigliarsi verso le estremità, spesso leggermente rivolte verso la lama. L’impugnatura, generalmente di 9 – 10 cm, ha un codolo piatto e largo che si assottiglia verso il pomolo, avente spesso una forma che potremmo definire a “noce del Brasile”. La lama presenta uno sguscio piuttosto largo, non troppo profondo, fatto per alleggerire il peso, e terminante a breve distanza dalla punta, non troppo pronunciata.

IL FALCIONE

Tipica arma utilizzata in battaglia dai fanti, o, come arma secondaria, da arcieri e balestrieri.

Si caratterizza per essere una spada ad un solo tagliente, il cui bilanciamento del peso, spostato verso la lama, insieme con la particolare forma della stessa, la rende particolarmente adatta ai colpi di taglio; nella rotazione, infatti, la posizione del peso e la dimensione della lama, le fanno assumere una notevole forza cinetica. Col tempo e in base alle zone di produzione il falcione ebbe forme diverse; ad esemplari con costola dritta e tagliente ricurvo si aggiungono esemplari di forma concava, dotati di una robusta punta, per certi aspetti simile allo stocco. Un modello è visibile in un dipinto del Botticelli, la Calunnia, risalente al 1496.

Oltre agli esemplari utilizzati in guerra, il falcione trovò estimatori, in versioni impreziosite e nobilitate anche da particolari lavorazioni, fra la nobiltà. (Il Cerretani, nella sua Storia fiorentina, narra che anche Caterina Sforza la portasse al fianco).

Altro esemplare di falcione esposto riproduce quello raffigurato all’interno della celebre Bibbia Macejowsky, un famoso manoscritto, risalente forse al XIII secolo, che racconta eventi della Bibbia ebraica nello scenario e coi costumi della Francia del XIII secolo; ne sono sopravvissuti 46 fogli. Il manoscritto, nel tempo, è passato di mano in mano, attraverso luoghi diversi, dalla Francia all’Italia, alla Polonia, nelle mani, appunto, del Cardinale Bernard Macejowsky, alla Persia, dove fu da questi regalato allo Shah Abbas I; nella prima metà del settecento scompare quando gli Afghani occupano Isfahan, nel 1722. Ricompare nel 1833 e viene messo all’asta da Sotheby’s, che dichiara di averla recuperata al Cairo. Attraverso più passaggi arrivò nella proprietà di Pierpont Morgan, nel 1910.

SI EVOLVONO LE PROTEZIONI, SI EVOLVE LA SPADA: LA SPADA DA STOCCO

L’evoluzione della spada segue inevitabilmente quella delle coperture difensive, legate ai progressi della lavorazione del metallo. Gli Usberghi, coperture costituite da innumerevoli anelli in ferro chiusi e ribaditi fra loro, e le Brunie, costituite da una base in pelle o tessuto rinforzato con l’aggiunta di piastre, portati spesso sopra una veste imbottita, vengono via via perfezionati e resi più efficienti, e vengono sostituiti, a partire dal XIII secolo, dalle prime corazze, originariamente realizzate sempre su una base di cuoio lavorato, a cui venivano sovrapposte una serie di placche di diversa forma e dimensione, sovrapposte e ribadite sia fra loro che alla base di cuoio, per fornire al tutto una certa flessibilità. Col tempo si provvide anche alla copertura degli arti, sia superiori che inferiori, con schinieri e bracciali, unendo il tutto dapprima con stecche o doghe, per arrivare poi, nella seconda metà del XIV secolo, ad un tutt’uno, con l’armatura completa in acciaio, che si afferma definitivamente.

Nella seconda meta del XIII secolo, del resto, si assiste anche ad una sorta di rivoluzione nella schermistica e nelle armi da offesa. Viene introdotta la Spada da Stocco, una spada caratterizzata da una lama che termina con una punta decisamente più pronunciata. Questo modello di spada sarà destinato ad affermarsi in breve tempo in tutto il Continente europeo, come paiono testimoniare alcune fonti letterarie del Trecento; l’arma viene citata anche dal Boccaccio, che in una novella del Decamerone scrive: “... et dietro a lei vide venire sopra un corsiero nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, cō uno stocco in mano”. Ad agevolare l’affermarsi dell’arma contribuiscono di certo le esigenze belliche legate alla Guerra dei Cent’anni (1337 – 1453). Il contesto storico non è più dominato dalla sola cavalleria pesante, ma anche da una fanteria ormai ben organizzata, che beneficia di protezioni altrettanto evolute, e proprio la presenza delle forti protezioni, sia dei cavalieri come dei fanti, rende necessario poter concentrare il massimo della potenza su un bersaglio ristretto, o una giuntura. L’uso della punta, tipica dello stocco si ritrova sia nelle armi più corte dei fanti sia in quelle, dalla lama più lunga, utilizzate dalla cavalleria.

LA SPADA A UNA MANO E MEZZA (O BASTARDA) 

Si tratta di armi il cui utilizzo risulta estremamente flessibile; il termine “bastarda” compare, nelle regole di un torneo organizzato da Enrico VIII nel 1540; connotazione caratteristica è la presenza di un’impugnatura di lunghezza maggiore rispetto alla spada d’arme, e, spesso anche di una lama più lunga. Tali particolarità ne consentono un utilizzo a cavallo, impugnando l’arma con una sola mano, in quanto la lunghezza della lama, ed il maggior peso conseguente, consente di colpire con efficacia bersagli che si trovano in posizione più bassa, come i fanti; allo stesso tempo non ne escludono un utilizzo a terra, sia impugnando l’arma a due mani, grazie alla maggiore lunghezza dell’elsa, che ad una sola mano, se dotati della forza necessaria; in quest’ultimo caso la particolare forma del pomolo, che tende a restringersi nella parte finale, consente proprio questo tipo di utilizzo senza che la lunghezza dell’elsa sia di ostacolo per il polso. Queste caratteristiche, specialmente quelle relative alle dimensioni dell’elsa, vengono anche riportate nella categorizzazione delle spade proposta da Ewart Oakshott, riguardo ai tipi XIII, XVa, XVIIIb, XVIIIc, XX, XXa.

Anche le spade a una mano e mezza le lame seguono l’evoluzione già richiamata per le spade d’arme, con sguscio che tende, col passare del tempo, a ridursi e la punta che diventa più pronunciata, sul modello dello stocco. Nel XV° secolo la guardia inizia ad evolvere, in alcuni esemplari, in forme atte a proteggere meglio la mano, consentendo allo stesso tempo di assumere una impugnatura più vantaggiosa; si nota ad esempio, in alcuni di essi, la presenza di un anello posto avanti alla guardia, in corrispondenza del ricasso, che consente, inserendovi il dito indice, di avanzare il fulcro della leva, modificando così il bilanciamento dell’arma per renderla più rapida.

LO SPADONE A DUE MANI (Zweihander). 

Si tratta di un’arma di dimensioni notevoli, mediamente 170 cm, dato che, secondo la trattatistica, specie italiana, doveva essere alta quanto l’utilizzatore; l’elsa era di dimensioni notevoli, anche 50 cm, così come la guardia, di solito a due bracci dritti. La forza e la velocità di una simile arma erano dunque notevoli, grazie alla disposizione delle mani, di cui una particolarmente avanzata, mentre la seconda impugnava l’arma nella parte del codolo, per ottenere una leva più efficace. Alcuni esemplari presentano un ricasso accentuato, delimitato da denti di arresto, per offrire una seconda, più avanzata impugnatura dell’arma, cosa che poteva consentire di utilizzare lo spadone anche negli scontri individuali. La lunghezza della lama arriva generalmente a circa un metro, con un tagliente dotato di doppia affilatura, e con una conformazione talora ondulata, che permetteva di scaricare una maggior energia sulla spada dell’avversario che fosse in posizione di parata. Se il peso dello spadone si aggirava, mediamente, fra i 2,5 e i 3,5 kg, non mancano esemplari di dimensioni prodigiose alcuni dei quali esposti a Graz, le cui dimensioni sono di 199 cm, per un peso complessivo di circa 6 Kg.

L’arma è diventata famosa per l’uso che ne hanno fatto i Mercenari Svizzeri e i Lanzi Tedeschi, per i quali è diventata nel tempo arma distintiva, ma la sua origine va forse ricercata in Spagna, anche se il “Montante” (come veniva definito dagli Iberici) non aveva le dimensioni delle armi tedesche. L’utilizzo prevalente che dell’arma veniva fatto in battaglia era legato alla sua spiccata attitudine ai colpi di taglio, grazie ai quali, per la grande energia cinetica generata dal peso e dalla conformazione delle leve, era in grado di spezzare e sfrondare le linee delle picche degli schieramenti avversari, specialmente quando i quadrati di fanteria contrapposti entravano in contatto; la situazione che si creava, data la presenza da entrambe le parti di un alto numero di lunghe picche, era di blocco; in questa fase, dall’interno degli schieramenti uscivano specialisti armati di spadone, detti Doppelsoldner, in quanto remunerati con doppia paga, che avevano il compito di risolvere la situazione di impasse spezzando la linea di picche avversaria e consentendo ai compagni di avanzare all’interno dello schieramento avverso. Questo è testimoniato, ad esempio da Paolo Giovio che, riferendosi alla Battaglia del Taro (luglio 1495), descrive l’intervento contro le fanterie italiane di un corpo di Svizzeri al soldo di Carlo VIII, Re di Francia: essi, appunto, tagliano le picche italiane servendosi di spadoni a due mani.

IL RINASCIMENTO – LA SPADA DA LATO

“O maladetto, o abominoso ordigno”. L’11 aprile 1512, a pochi chilometri dalle mura di Ravenna, fu combattuta una battaglia cruenta, che vide uno di fronte all’altro, gli eserciti di tutta Europa riuniti da una parte sotto i colori della “Lega Santa" e dall’altra sotto quelli della Francia. Fu una delle ultime battaglie del Medioevo e, forse, la prima dell’era moderna, per la novità terribile rappresentata dalle artiglierie, per la prima volta massicciamente presenti su un campo di battaglia. Ludovico Ariosto, che era al seguito del duca Alfonso d’Este, scrive, nell’Orlando Furioso quelle parole. Dopo otto ore di combattimenti la campagna intorno a Ravenna fu tappezzata da oltre ventimila morti.

Il Cinquecento, e ancora di più il Seicento, con il definitivo affermarsi delle armi da fuoco, portano ad una evoluzione sia nel modo di far la guerra che nei costumi in ambito civile che, per quanto attiene alle armi porta alla definitiva affermazione della cosiddetta “spada da lato”; si tratta di una spada lunga, stretta, dotata di elevata manovrabilità, ancora utilizzabile per portare colpi da taglio, ma adatta, per sua natura, ai colpi di punta. La sua guardia, a differenza del passato, si presenta, col procedere del tempo, sempre più articolata, con anelli, a cui si aggiungeranno ponti, ponticelli, accompagnati da un ricasso, il tutto per consentire numerose e diverse possibilità di impugnatura nelle quali, però, la mano resti protetta, vista l’assenza del guanto d’arme. Questa evoluzione è dettata dal focalizzarsi della pratica schermistica verso uno gioco con la mano armata avanzata, necessario per concentrarsi sul colpo di punta risolutivo. L’evoluzione porterà poi alla “striscia”, che sarà l'arma per eccellenza del XVII secolo, specie nella scuola italiana.

L’arma, nonostante la lama più sottile, viene utilizzata in guerra, grazie al perfezionamento nella lavorazione degli acciai, ma anche in ambito civile, quale strumento di autodifesa, nei duelli come nelle zuffe di strada. Si trattava dunque di una spada elegante, dal momento che i suoi utilizzatori, in ambito civile, erano normalmente i nobili o i ricchi borghesi. Per quanto riguarda la lunghezza ideale della spada può tornare utile quanto riportato dal Ridolfo Capoferro secondo cui: "… Adunque, la spada ha da esser lunga, quanto il braccio doi volte, o quanto il mio passo straordinario, la qual lunghezza, parimente risponde a quella, che dalla pianta del mio piede, insino sotto alle ditella, del braccio…".

In Italia l’esplosione della ricchezza nelle classi borghesi, porta ad un successo della spada da lato, con l’affermarsi di celebri scuole, come quella bolognese, e di insigni trattatisti, come Achille Marozzo, Ridolfo Capoferro, Francsco Alfieri, celebri a livello mondiale.

Note Bibliografiche

Omero: Iliade  

Claudio Quadrigario: Annales / Tito Livio: Ab Urbe condita  

Polibio: Storie  

Vegezio; Epitoma rei militaris

Cascarino: L’esercito romano – Armamento e organizzazione

Paolo Diacono: Historia Longobardorum

V.D.Hampton, (2011), Viking Age Arms and Armor Originating in the Frankish Kingdom

Bartolomeo Cerretani, Storia fiorentina, ed. Giuliana Berti, Firenze, 1994.

Boccaccio, Giovanni, Decamerone, Quinta Giornata, VIII, Nastagio degli Onesti

Ewart Oakeshott: Records of the Medieval Sword (1991) – Ed. Boydell

Ewart Oakeshott: Sword in the age of chivalry (1994) – Ed. Boydell

Wanke, Tilman (2009), Anderthalbhänder – Zweihänder – Langes Schwert

Clements, J. "The Weighty Issue of Two-Handed Greatswords

Ridolfo Capoferro, Gran Simulacro dell'Arte e dell'Uso della Scherma - 1610