L'occhio trasparente. Per un Dante del XXI secolo

Statua di Dante - Verona, Italia
Roberto Gagliardi
Data di pubblicazione

 Per un Dante del XXI secolo[1]

1. Settecento anni dopo

Ritorni, anniversari. Per loro natura sono pressoché infiniti, e il loro lancio è continuo in questa nostra età delle comunicazioni di massa, assetata di occasioni e di pretesti. Spesso sono frivoli, o poco significativi: qualche volta però hanno il pregio di suggerire o addirittura imporre ripensamenti, bilanci, progetti.

E’ di questo tipo il settecentenario della Commedia: si intende, del viaggio dantesco, della data in cui il poeta colloca il suo viaggio immaginario. Siamo ormai settecento anni dopo: almeno, se si deve seguire l'opinione vulgata che il viaggio si collochi nell’anno secolare 1300. Ma anche siesi volesse metterlo in dubbio, come del resto è stato fatto lungamente, l’unica alternativa possibile sarebbe il 1301[2], e visto che ormai il 2000 va declinando, ci saremmo lo stesso.

Il problema che questo ritorno ci propone è che cosa farsene ormai di Dante e del suo libro, nel terzo millennio incombente. In un tempo cioè che per tanti aspetti sembra così incompatibile con l’afflato dantesco, con la sua visione del mondo, col suo tipo di poesia: il tempo della tecnologia trionfante e magica, della crisi irreversibile (?) dell’approccio religioso all’esistenza (religioso, si dice, e non sentimentalistico o superstizioso), della disgregazione dei gruppi e delle società in singoli individui infelici e impotenti. Ha un senso qui nell’Occidente del mondo, qui ed ora, cercar di fare dell’opera di Dante qualcosa di più che un interessante documento del passato? E semmai quale chiave di lettura, delle tante che si sono susseguite nei secoli, può fornirci questo senso ?

Il problema è se ce ne sia uno di questi metodi che non sia polveroso. Che dica, che abbia almeno la possibilità di dire qualcosa a chi ci seguirà in questo mondo. Proviamo a ripercorrerli brevemente, i modi del passato: perché ognuno ha insegnato qualcosa, e perché nessuno di essi è più veramente utile, ormai.

 

  1. Dal Trecento al Novecento, dal teologo al teosofo

Non lo è certo il modo trecentesco, il primo, e forse quello che Dante stesso avrebbe gradito di più: Dante come teologo e filosofo, come sapiente che esprime con il verso le verità della fede e della scienza, traducendo in immagini plastiche i concetti della religione. Questa lettura spiegava tutto ai contemporanei e agli immediati posteri, ed oggi serve ancora: ma solo ad aiutarci a veder riflesso nell’opera di Dante un modo di sentire e di pensare che va ben oltre la sua pur possente individualità. Serve, ma non può più essere condivisa. La scienza di Dante è passata, forse anche la sua fede: non dico le formule in cui essa si esprimeva, dico proprio il significato profondo di quella scienza e di quella fede, l’idea di un cosmo chiuso e di una religione onnipervasiva. La Commedia[3] si è alimentata di queste idee, e comprenderle è necessario: ma quando siamo arrivati in fondo alla nostra ricostruzione, la domanda iniziale ritorna.

E nemmeno ci serve l’idea di Dante padre della lingua e poeta “sommo”, quella che sta dietro all’apprezzamento di tanti umanisti e uomini del Rinascimento: dal Landino al Botticelli al Machiavelli[4]. Noi lo sappiamo che Dante è un "grande" poeta, un tecnico sublime della parola, un poeta che come il suo Omero sovra gli altri come aquila vola[5]: ma questo rischia di essere solo un elogio enfatico, magari assai fondato, ma in realtà poco produttivo, perché Dante ha mostrato sì a quali altezze si possa giungere nell’uso della parola, ma non ha fornito una formula didatticamente utile[6]. Non è un caso se quasi nessuno ha provato nei secoli a prendere la Commedia come modello reale: e non credo che possa farlo il XXI secolo incombente.

E ancora: Dante come poeta epico del Medioevo, età sorgente secondo Giovan Battista Vico, Dante che scrive quasi a nome e per conto delle ferocie e delle tenerezze dei signori feudali e degli uomini dei Comuni. Grande perché grande era l'età sua, e lui la rifletteva in sé. Anche se in questa formula c’è qualcosa di vero, ad essa non crediamo più, come non crediamo più che il Medioevo fosse un tempo particolarmente ricco di gente focosa e irrazionale[7]. Guardatevi intorno, se volete le passioni ardenti e irragionevoli, guardate i nazionalismi e i localismi dell'oggi, guardate la languorosa ricerca di "emozioni" e di sensualità di ogni tipo. E, ormai lo sappiamo, la Commedia non nasce dalle lotte di parte del Medioevo, ma semmai, come tutti i grandi libri, da altri libri, da Tommaso e da Sigieri, da Andrea Capellano e dalla poesia provenzale, da Virgilio.

Se poi pensiamo al Dante ottocentesco, lampeggiano nella memoria le icone accigliate e veementi del vate dell'Italia unita, del fiero anticlericale, del fustigatore degli odi di parte. Sbozzata da Foscolo e da Mazzini e nutrita dai romantici alla Prati e Aleardi, questa visione che trasforma Dante in un protagonista del Risorgimento dilaga nel secondo Ottocento, dando vita ad un culto un po’ idolatrico del Sommo Poeta. Se il Risorgimento può essere accusato di delitti, questa immagine è sicuramente uno di quelli[8]: e quel Dante continua ad essere propagato per tutto il Novecento soprattutto attraverso la scuola. Pure questa frequentazione massiccia non soltanto oggi non serve più, ma addirittura rischia di nuocere ad una adeguata comprensione della sua opera maggiore, perché stimola a buttare via il bambino con l'acqua sporca, a nascondere dietro l’esaltazione la perdita di contatto[9].

Al di fuori della scuola il ‘900 comincia a rileggere davvero Dante, a misurarsi con le sue profondità. Ne emerge un Dante “miglior fabbro”[10] maestro di un rapporto profondo e quasi carnale fra parola e pensiero: il Dante di Eliot e di Ezra Pound, ma anche quello che sta dietro, ad esempio, ad un poeta come Franco Fortini[11], un Dante di cui non a caso si apprezza soprattutto il Paradiso[12]. O ci suggerisce un Dante misterioso, ermetico, astrologo, mago, esoterista: sulla scia della lettura ottocentesca di Foscolo e di Rossetti, attraverso Giovanni Pascoli e addirittura il breve intervento del pontefice del misticismo razionalistico del XX secolo, René Guenon[13].

C'è del vero in entrambe queste letture: io personalmente le sento molto vicine. Ma probabilmente sono unilaterali, e come tutte le letture di Dante più legate ai lettori che al libro. Più ad Eliot che a messer Durante.

 

3. Critica del XX secolo

C'è del vero, c'è molto di utile in queste letture. Ci servono tutte. Ma non possono essere tutto il nostro bagaglio per il tempo che ci attende.

L’idea del "miglior fabbro" può essere il modo che un poeta ha di dialogare con il Poeta. Ma non può diventare la nostra chiave di lettura. Non oggi, alle soglie del millennio, con i delitti supremi che stanno alle nostre spalle: il nazismo e lo stalinismo, le guerre europee e le stragi balcaniche, la distruzione progressiva della natura e delle diversità umane, la fame, la proliferazione insensata della specie. Quando si pensa a queste cose, e si svolge la riflessione semplice che Dante, se fosse vissuto qui ed ora non avrebbe potuto né voluto ignorarle, si vede improvvisamente l’eccessivo culto della forma di queste impostazioni[14].

E nemmeno l'idea di un Dante misteriosofico, che compone indovinelli infiniti con i suoi versi, può essere realmente convincente. Non è possibile che il sommo poeta sia stato anche sommo alchimista, sommo pitagorico, sommo filosofo, insieme tomista e averroista latino, insieme cristiano e neopagano, insieme epitome del Medioevo e apripista del Rinascimento. Tutte queste definizioni hanno qualcosa di vero: ma forse dipende dalla veramente eccezionale centratura di quest'uomo, le cui parole sembrano essere scintille di quella fiamma di verità che illumina un po’ tutte le strade umane che conducono a Dio (qualunque sia la realtà nascosta in questa parola). E di cui si intravede sempre il lucore, anche se ci aggiriamo per cammini diversi; anche se siamo smarriti, impediti, assonnati.

 

4. Dante verità: la trasparenza della Commedia

Perché questo sembra a me il dato più straordinario da ricordare a settecento anni da quel simbolico anno 1300: la carica di verità profonda che si sente sempre e comunque nei versi di Dante e nelle sue impostazioni. Verità, sembra la parola chiave. Come se la Commedia fosse la rivelazione continua non di una qualche dottrina misteriosa, ma dell'essenza semplice delle cose umane così come le vivono, in ogni tempo a noi noto, gli esseri umani, e come si riesce a vederle con chiarezza poi, nel pensiero che rimugina e rielabora la propria limitata vicenda personale. Ma nella Commedia sono tante storie diverse a coesistere e ad illuminarsi continuamente: come in un diamante dalle infinite sfaccettature, dove il taglio ha generato piani diversi, che cambiano al cambiare del punto di osservazione. Ma ognuno riflette la luce, anzi la raccoglie e la genera.

Allora alla domanda “quale Dante per il XXI secolo?” io risponderei appunto, “un Dante portatore di verità”. Non una verità chiusa, come erano necessariamente quelle della sua teologia, della sua filosofia, della sua politica; e nemmeno quelle della sua lingua o della sua perizia tecnica. Ma una verità aperta, che si rinnova in ogni tempo, che in ogni tempo si adegua alla forma delle cose, e che è verità solo perché aderisce continuamente alla condizione umana, con la sua efferatezza e la sua delicatezza, con la sua forza e le sue incertezze.

Non vorrei che queste sembrassero parole magari nobili ma vuote o generiche. Il fatto è che Dante ha “profetizzato” i problemi e le situazioni dell'oggi[15]: che sono, è troppo ovvio e troppo doloroso, i problemi e le situazioni di sempre, finché l'umanità non riesca a salire davvero verso la parte alta del colle, attraverso la crescita di coscienza di tutti e di ciascuno. Dante ha reso trasparenti quei problemi[16], e ce li ha riproposti. Certo, secondo le modalità in cui poteva esprimerli nel suo tempo e nel suo luogo; ma anche in modo tale che riusciamo a sentirli anche noi oggi, a rileggere attraverso i suoi versi i nostri eventi. Ed è questo “modo tale” che noi riconosciamo come “poesia”[17], e chiamiamo così, in mancanza di una parola più precisa.

Penso che questa affermazione valga per tutta la commedia. Cercherò di esemplificarla attraverso la rapida analisi di due figure: famosissima una, meno nota ma altrettanto grande l'altra. Sono Ulisse e Cunizza, inferno profondo e paradiso.

 

5. Ulisse

Ulisse, consigliere fraudolento. Chi è? Di certo non è il titanico avversario di Dio che il romanticismo si è figurato. E, certo, Dante lo ammira. Ma altrettanto certo è che per lui è un dannato, e di una delle bolge più profonde.

Chi è Ulisse? La risposta la vediamo nell'oggi: non perchè prima non ci fosse, ma perché le consapevolezze maturano con i tempi e con le vicende. E quale tempo più del nostro è seminato di consiglieri di frode, di maliziosi e miopi direttori di coscienza?

Si prenda un desiderio, un'istanza, un istinto primario: per esempio quello di difendere se stesso, di promuovere i propri cari, di affermare la propria identità. Di riscattare la propria miseria. Di ampliare la propria conoscenza. Si prenda quel desiderio o quell'istinto, e si sussurri all'orecchio dell'uomo che esso, esso solo è ciò che conta. Si garantisca con la propria vita e con la propria persona. Gli si dica in maniera cordiale e sincera che "fatti non fummo a viver come bruti". Si invochino "virtute e conoscenza", e si superi il limite.

Il risultato sarà quello di Ulisse, il naufragio. Il mare che si richiude sopra di noi: e non è Dio che scatena le acque. E' il superamento del limite che soqquadra ciò che era in equilibrio, e da questo eccesso/hybris viene la sventura/ate, il turbine che nasce dalla nuova terra. Come dall’azione (karma) viene la reazione. E il consigliere fraudolento ritorna alla materia primigenia insieme con i suoi miseri seguaci.

Quanti consiglieri di frode abbiamo visto nei nostri anni! Con stragi, pulizie etniche e soluzioni finali; con il commercio degli organi umani, con il ritorno della schiavitù, con l'insana scarnificazione della pelle della madre. E all'origine di ciascuna di queste sciagure, di cui non c'è mai stata carenza, ma che il nostro tempo consegna al nuovo millennio con particolarissima abbondanza, c'è un consigliere di frode, il portatore di una parola che all'inizio sembra, e forse è, parola di vita e di verità: le risorse del pianeta servono per il benessere dell'uomo, la medicina può montare e rismontare il corpo dell'uomo, noi siamo la nostra terra, noi siamo le dolci memorie del passato, seguimi e ti porterò nella città luccicante dove tutto è luminoso e abbondante .... e via dicendo. La frode naturalmente sta nel fatto banale che il fraudolento non ricorda e non fa ricordare ai suoi seguaci abbindolati che esiste un limite, e che questo limite non è un optional, ma una necessità dell'umana avventura[18].

E' per questo che nel XXVI dell'Inferno ci troviamo di fronte ad un profondo e vitale conflitto. Fra la grandezza del protagonista, la sua dignità umana, il suo valore di modello: e la squallida vicenda che l'ha portato alla morte, e la punizione bruciante che lo nasconde alla vista. Perché Dante , in questo come in altri personaggi, ci trasmette un messaggio di umiltà e di verità: che la vita è un viluppo di contraddizioni, che si può insieme condannare e comprendere, evitare e ammirare. E che trascurare la verità porta non solo alla morte, ma anche alla perdita di sé[19].

 

6. Cunizza

Cunizza, IX del Paradiso, cielo di Venere. Un personaggio ed un canto che non fanno parte di quelli "canonici". Forse perché i commentatori si sono sempre sentiti imbarazzati di fronte all'eroina di questi versi, e quindi parlano volentieri di personaggio "non realizzato", immaginano che Dante la valorizzi per un "pentimento" di cui non c'è parola nel testo, ipotizzano un trasferimento dello slancio amoroso di Cunizza dal piano sensuale a quello cortese e spirituale[20].

Chi era Cunizza da Romano, sorella di Ezzelino, il più feroce dei tiranni del Duegento? Fu una donna di grande rilievo e spessore nel suo tempo. E di “liberi”, liberissimi, costumi. Amante del trovatore Sordello da Goito: che la "rapì", ed il loro non fu certo un amore lontano o sublimato. Moglie di Bonifazio signore di Verona, e poi di altri due mariti: ma provvista di diversi e clamorosi amanti. Una donna segnata irrevocabilmente[21] dalla stella in cui Dante la incontra: Venere, il pianeta dell'amore. Noi oggi, credendo di essere scientifici, trascureremmo l'oroscopo di Cunizza, e parleremmo forse di "predisposizione genetica": ma non faremmo che usare parole diverse per dire la medesima cosa.

Cunizza, dice il commentatore, era di tanta larghezza en lo so amore che avrebbe tenuto gran villania a porsi negarlo a chi cortesemente glie l'avesse domandato[22]. Ora, la Cunizza terrena era morta nel 1279, a Firenze: e dopo poco più di vent’anni la troviamo, secondo Dante , in Paradiso. Perché? Vediamolo.

Di certo Cunizza non è in Paradiso "nonostante" il suo essere imprentata da Venere, ma "a causa" di questo influsso. Lo dice lei stessa: qui refulgo /

perché mi vinse il lume d'esta stella[23]. “Mi vinse” indica certo una limitazione[24], ma, mi si conceda il bisticcio, limitata: Cunizza non è una combattente o una contemplante, ma una beata sì, una beata che alla beatitudine è giunta mediante la sua naturale "amorosità". Attraverso la sua sensualità, che ora lei ricorda gioiosamente: ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte , e non mi noia; / che parria forse forte al vostro vulgo[25].

Cunizza quindi si "perdona" con gioia: e queste che ho ricordato sono le parole non di una “pentita”, ma di un'anima trasfigurata, che non ricorda più il peccato, o quello che peccato appare alla gente, e accetta in piena letizia la propria collocazione nella scala settenaria che porta a Dio: come diceva Piccarda, 'n la sua voluntade è nostra pace.

Quando riflettiamo a mente sgombra su questo intreccio capiamo improvvisamente che la sensualità di Cunizza non è quella di Francesca o quella della "femmina balba" che Dante sogna nel XIX del Purgatorio. E diventa chiaro che Dante ha sulla sensualità opinioni diverse da quelle dei vittoriani di ogni epoca, pronti a vedere nella Commedia solo quello che corrisponde alle loro idee. Nell'Inferno Dante ha riflettuto sulla lussuria, la pulsione umana profonda da cui si può venire sopraffatti, il vento turbinoso che trascina Francesca e Paolo. Nel Paradiso ci presenta la faccia chiara di questa pulsione, che innerva la vita umana e le attribuisce un senso: senza amore l'essere umano è un infimo frammento di realtà travolto da ogni intemperia, mediante amore diventa un vettore che viaggia coscientemente verso la sua patria celeste, una delle creature che “si movono a diversi porti / per lo gran mar de l'essere, e ciascuna / con istinto a lei dato che la porti[26].

Amore significa attività, impegno, spendere i talenti che Dio ti consegna all'entrata della vita. La vita è amore: all'inizio dell'inferno stanno gli ignavi, gli sciaurati che mai non fur vivi, che hanno rifiutato l'amore ed hanno avuto paura della vita.

Ed ecco che all'occhio trasparente di Dante Cunizza diventa segno di cosa ben diversa da ciò che i suoi trascorsi libertini suggerirebbero (e non dipende dal fatto che di quelle cose si sia pentita). Diventa segno di questa capacità umano-divina di essere attivi nel mondo, nelle relazioni umane come nella vicenda politica e civile: capacità che riscatta ogni tipo di peccato. E' quell'amore che porta Manfredi ad abbandonarsi a Maria in punto di morte; l'amore per la verità, che spinge Catone al suicidio fisico in cui ritrova la libertà; l'amore della giustizia, che concede a Traiano ormai morto la possibilità di convertirsi "dopo" il momento supremo.

Perché Dante sovrappone sempre alle categorie morali che condivide col suo tempo una sua scala di valori troppo più profonda e "trasparente": e suicidi, prostitute o libertini possono essere salvi e anzi segnacolo di salvezza, mentre papi, falsi convertiti come Guido da Montefeltro o usurai ipocriti sono scagliati nel profondo dell'inferno[27].

 

7. Verità e amore

L'occhio trasparente di Dante. Mi si conceda questa immagine, suggerita da un passaggio dell'ultimo canto della Commedia, dove si parla di Maria che si volge a Dio, per chiedergli che conceda a Dante di vederlo e di sopravvivere alla prova: e la madre del Cristo indirizza al Creatore uno sguardo di luce[28]. Non è più l'occhio che riceve ed elabora la luce, ma l'occhio che diventa luce e genera luce: così si realizza il contatto con Dio. Allo stesso modo l'occhio di Dante trapassa l'apparenza carnale delle sue creature, va oltre l'opacità che di solito ci arresta e ne disegna il significato e il valore nello schema divino.

Noi forse non siamo in grado di compiere la stessa operazione: ma di seguirla nei suoi esiti, sì. E questo ci consente di leggere Dante come poeta di verità, e di comprendere almeno un po’ la bellezza dello slancio vitale di Cunizza e l'errore folle di Ulisse[29]. O ancora, citando alla rinfusa, il pericolo mortale della sensualità in Paolo e Francesca, la tragica vanità di Pier delle Vigne, la dolcezza suprema dell'incontro con la propria anima nei canti finali del Purgatorio, il compiacimento delle proprie radici in Cacciaguida, il rifiuto della ricchezza come fine della vita in Francesco d'Assisi. E via dicendo: tutta la commedia può essere letta come mezzo per mettere a fuoco una verità che non è di destra né di sinistra, non è medievale né moderna, non è laica e non è religiosa.

Leggere Dante, nel III millennio: usando tutti gli strumenti della filologia, certo. Recuperando gli aspetti ancora vitali dei vari modi di lettura che si sono succeduti nei secoli, certo. Ma soprattutto ricordando che questo era e resta un poeta religioso, che parte da Dio e a Dio ritorna: e che Dio, qualunque cosa sia davvero, è per lui (e necessariamente per noi se e quando lo leggiamo) due cose insieme, mescolate e indistricabili: conoscenza (cioè, verità), e amore.

 

[1] Mi piace dedicare al ricordo di Andreina von Ramm questo mio contributo. Che non ha intenzioni celebrative: piuttosto vuole, con la necessaria umiltà e la necessaria decisione, partecipare al dibattito ideale sulla attualità possibile del poema dantesco, così presente alla nostra storia culturale e così continuamente minacciato di estinzione.

[2]  Personalmente io sono fra quelli che preferisce pensare che l’anno che Dante aveva in mente sia il 1301, o almeno che il 1301 c'entri parecchio:  ma non è di questo che voglio parlare oggi, e del resto penso che la questione sia sostalziamente insolubile.

[3]  Che forse, anche per questo, sarebbe opportuno indicare così, Commedia, senza quell’aggettivo “divina” che quando non sia una semplice indicazione di argomento o un’enfatica forma di valorizzazione rischia di imporci surrettiziamente l’idea dell’opera dantesca come teologia versificata, da accettare o da respingere ideologicamente. Del resto Dante pensava alla sua opera come “commedia” (Comedìa, Inf. XXI 2; e anche il “titulus” come è indicato nella XIII epistola, a Cangrande della Scala: Incipit Comedia Dantis Alagherii, florentini natione, non moribus) ed è stata la devozione del Boccaccio a imporre la dizione vulgata.

[4] A Dante, del resto,  quel tempo ha anteposto il Petrarca e il Boccaccio.

[5] Inf. IV 96

[6] Quando ci prova rischia sempre di sperdersi in empirei mistici, grandiosi ma poco utili alla gente comune: come nel XXIV del Purgatorio, quando dice di essere uno “che quando amore spira” nota, ed esprime ciò che esso amore gli “ditta dentro”. Dove il problema per noi  è evidentemente quello di visualizzare questo “amore”, che in qualche modo coincide con lo Spirito Santo, e colloca l’esperienza umana dantesca che necessariamente precede la sua scrittura in un mondo privilegiato.

[7] Anche se Vico anticipa sensibilità romantiche, è pur sempre espressione del secolo dell’Illuminismo: che questa identificazione tra Dante e il Medio Evo la sposa sovente, magari rovesciandone il senso, come accade con Voltaire che definisce la Commedia un salmigoudis, un guazzabuglio. Ma anche a questo orgoglio sprezzante non possiamo più dare orecchio, oggi che conosciamo bene il tessuto razionale e sofisticato del poema dantesco.

[8] Fra l’altro questa lettura distacca Dante dalla sua dimensione religiosa: vedi per tutti un famoso sonetto di Carducci a questo proposito (Rime Nuove, II, XVI: “Dante, onde avvien che i voti e la favella / Levo adorando al tuo fier simulacro, / E me su ‘l verso che ti fe' già macro / Lascia il sol, trova ancor l'alba novella? / Per me Lucia non prega e non la bella / Matelda appresta il salutar lavacro, / E Beatrice con l'amante sacro / In vano sale a Dio di stella in stella. / Odio il tuo santo impero; e la corona / Divelto con la spada avrei di testa / Al tuo buon Federico in val d'Olona. / Son chiesa e impero una ruina mesta / Cui sorvola il tuo canto e al ciel risona: / Muor Giove, e l'inno del poeta resta.”).

[9] Forse è il pur grande Benedetto Croce quello che più ha risentito di questo distacco, e la sua Poesia di Dante del 1921 è il testo in cui il possibile travisamento raggiunge i suoi livelli più elevati. Il rifiuto della “struttura”, la ricerca ossessiva di una “liricità” individuata in piccoli o piccolissimi lacerti strappati al corpo vivo della Commedia, il rifiuto di comprendere Dante iuxta propria principia: tutto questo si sposa all’esaltazione continua degli aspetti energici e soavi della poesia dantesca, che diventa quasi degustazione sensuale di un’anima bella.

[10] L’espressione, che in Purg. XXVI 117 è riferita in modo elogiativa da Guido Guinizelli ad Arnaut Daniel, venne ripresa da Ezra Pound  per Dante stesso.

[11]  Uno dei pochi poeti del ‘900 che probabilmente, ha avuto in Dante un modello vero.

[12] Non è più l’idea umanistico rinascimentale del poeta/artista, tecnico sopraffino della parola, ma quella di un rapporto profondo e un po’ misterioso tra pensiero e forma artistica, dove il verso incarna  una verità “velata e ri-velata”, una verità umana su cui aleggia  il soffio divino.

[13] René Guenon, L’esotérisme de Dante, 1929. Ma l’esponente  più acuto e appassionato di questa tendenza è stato probabilmente Luigi Valli, discepolo di Pascoli e sostenitore della teoria delle simmetrie strutturali della Commedia secondo l’alternarsi dei motivi della Croce e dell’Aquila.

[14] Viene in mente un passaggio veramente dantesco di Bertold Brecht: “Quali tempi sono questi, quando / discorrere d’alberi è quasi un delitto, / perché su troppe stragi comporta silenzio!” (“A coloro che verranno”, del 1938: cito dalla traduzione di Franco Fortini in Bertold Brecht, Poesie e canzoni, Torino 1959)

[15] Che Dante avesse la la convinzione di essere “profeta” è in fondo noto, anche se di solito non lo si mette troppo in evidenza, io credo per una sorta di pudore di fronte ad una pretesa simile: che perde però ogni  alone di scandalo, quando si intenda “profeta” non come “indovino del futuro” e nemmeno come “predicatore”, ma semplicemente come colui che individua con chiarezza la verità umana e la rimanda a quegli stessi uomini che la producono, perché in essa si specchino e da essa imparino a salire verso l’alto. Che è cosa semplice, e sublime insieme.

[16] Ovviamente la frase corretta è: Dante è uno di quelle persone, uomini e donne, che hanno reso trasparenti quei problemi, etc.: La relego qui in nota per evitar di appesantire l’esposizione.

[17] Naturalmente c’è anche una ragione meno consolante: ed è il fatto che siamo gli stessi esseri umani del XIV secolo.

[18] Sunt denique fines: una verità che oggi scopriamo una volta di più. Così, ripetendo la massima di di Orazio, ci rendiamo conto che il suo grido non era la grettezza di una mente piccina, ma una delle verità fondamentali sottese all'esistenza dell'uomo.

[19] Forse è necessario precisare, ma solo con un accenno fuggevole, che ribadire i limiti non significa negare l’importanza della ricerca, dello slancio, del progetto. Basterebbe pensare a Giustiniano, per esempio: o a Francesco, a Tommaso, a Cacciaguida il martire, a Romeo di Villanuova; o infine a Stazio e a Catone. Tutta gente che non si è acquetata nello schema ricevuto dal proprio tempo, ma si è protesa a costruire un futuro diverso, in tutti i campi. E del resto al “progresso” Dante pensava anche nell’ambito più vicino a sé, la “gloria della lingua”, con lui stesso impegnato a seguire le orme dell’uno e dell’altro Guido, andando oltre.  

[20] Già il Foscolo coltivò l’idea un po’ peregrina che Cunizza venisse posta da Dante là dove la troviamo “in via d’espediente”, cioè in via provvisoria, in attesa “che gli sovvenisse di alcuna altra ombra alla quale stesse meglio di predire con gioia feroce il sangue delle lotte civili”. E Croce (citato in Thomas G. Bergin, Il canto IX del Paradiso, “Nuova ‘Lectura Dantis’ “, Signorelli Roma 1979) parla dell’ “idea bizzarra di rendere un gaio omaggio alla cordiale ed esuberante signora”, parole in cui l’eleganza della forma non nasconde la stizzosità del giudizio.

[21] Come Carlo Martello nell'VIII e come Folchetto e Raab in questo stesso canto IX: segnata, imprentata dice Dante (noi diremmo oggi, con il tremendo inglese che dilaga, imprinted) dalla virtù amorosa – che, come sappiamo, non è una "virtù" nel senso moralistico del termine, ma la potenza incoercibile che il pianeta "irraggia" su chi resta sottoposto a lui.

[22] Sono le parole, molte volte ricitate, del commento trecentesco del Lana

[23]  Par., IX, 32/33

[24] “Limitati” sono del resto  tutti i beati dei primi tre cieli: dalla loro mutabilità quelli del cielo della luna, dall’amore per gli onori e la fama quelli del cielo di Mercurio, dall’amore delle creature quelli del cielo di Venere.

[25] Par. IX, 34/36

[26] Par. I, 113-115

[27]  L'anima del traditore  Branca d'Oria è già nell’Inferno mentre lui ancora mangia bee e veste panni (Inf. XXXIII 141):  qui il peccato contro amore crea quella che teologicamente è una contraddizione, ma che rientra a pieno nella visione profonda dantesca

[28] Gli occhi da Dio diletti e venerati /... a l'eterno lume si drizzaro, /nel qual non si dee creder che s'invii / per creatura l'occhio tanto chiaro (Par. XXXIII 40-45)

[29] Dante insiste molto sulla “pazzia” dell’eroe omerico: non c’è solo il folle volo di Inf. XXVI 125, ma anche il varco / folle d’Ulisse di Par. XXVII 82/83

Note Bibliografiche

L'Unicorno n. 2/2000 numero speciale in memoria di Andreina von Ramm